Da appena tre mesi nelle nostre vite ha fatto irruzione un evil brand potente, il Covid-19, con la sua carica distruttiva, il suo linguaggio, i suoi simboli. La sua forma ostica diventa familiare e viene reinterpretata, stilizzata e sfruttata per dare tangibilità all’intangibile. Un brand malefico, ma potente, seguito dal suo linguaggio visivo e dalla sua architettura di marca involontaria. Monopolizza il mondo con i suoi sottobrand, nati spontaneamente, ma che inevitabilmente ci hanno parlato e continuano a parlarci di lui, del coronavirus e della sua potenza di comunicazione dirompente, pervasiva. Una simbologia fatta da mascherine, guanti e gel igienizzanti che vengono diffusi per il loro inserimento forzoso nelle nostre vite di tutti i giorni. Questo “brand involontario” viene diffuso dai nuovi predicatori del tempo della pandemia: virologi confusi con verità confutate o confutabili, editorialisti, protagonisti del mondo dell’infoteinment che divulgano quotidianamente notizie e numeri che contano i nuovi contagiati, i decessi crescenti e decrescenti, le reazioni del mondo politico e delle sue sottostrutture governative. Una viralità che monopolizza e contagia tutto il mondo della comunicazione, dall’informazione alla pubblicità, dall’intrattenimento alla politica.
A questa invasione sensazionale di reazioni, il distanziamento sociale, le nuove modalità di fruizione di tutti gli spazi pubblici, le nuove modalità di consumo, il mondo del brand classico risponde in modo forse troppo classico. Le marche che possono permetterselo tentano di cavalcare un’onda indomabile. Focalizzano i loro investimenti e il loro linguaggio sulle conseguenze della pandemia. Il tema diventa il lockdown trattato sempre nello stesso modo. Possiamo farcela, ne usciremo, torneremo ad abbracciarci, insomma, un grande e generico “volemose bene”. Il risultato non è quello sperato, perché il linguaggio è un mantra retorico che punta sui valori della patria e della famiglia. Celebriamo gli eroi di ogni giorno in prima linea e gli eroi del quotidiano, i papà, le mamme, i bambini. Covid-19 segna dieci punti contro il mondo della comunicazione pubblicitaria. Le agenzie e i loro clienti
si ritrovano tutti a dire le stesse cose. Eppure c’è stata una sorta di rivoluzione copernicana. Il lockdown, ma anche la fase due, hanno offerto e continuano a offrire spunti per idee nuove e clamorose. Da pubblicitario, ogni volta che parlo con qualcuno, il ritornello è lo stesso, vengo accusato anche se sono innocente e non ho prodotto nulla in tempo di pandemia: “... ma basta con quest’ipocrisia... le frasi a effetto... ma sono tutti uguali questi spot...”. Forse è vero, sono tutti uguali. Li guardo e li riguardo, li osservo, li studio e li smonto. Si sarebbe potuto fare qualcosa di diverso? Naturalmente sì, a me personalmente viene in mente tanto. Perché nessuno spot ci ha fatto sobbalzare, commuovere, entusiasmare? Perché manca quella punta dell’iceberg che avremmo potuto ricordare negli anni a venire malgrado la sensazionalità del momento? Personalmente risposte non ne ho. Me lo chiedo. Eppure sono questi i momenti drammatici in cui Spiderman riesce a reagire ai colpi di Goblin. Covid-19 è il super villain e la comunicazione - intendo tutto il mondo della comunicazione - doveva essere il super hero, ma non lo è stato. Paradossalmente lo è stato il malvagio. Il cattivo ha generato anche il buono. La coesione attraverso la distanza. Il recupero dei valori attraverso la distruzione. Il recupero del tempo attraverso il suo annientamento del ritmo pre pandemico. Insomma Covid-19 è un vero brand. Propone consumi e stili di vita, non ha una marca e non ha prodotti, ma è un brand a tutti gli effetti.